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10Km

I miei primi 10Km. Come fossero i miei primi 10km, quelli misurati, quelli fatti con altri, quelli con il pettorale. La prima cosa che mi balza agli occhi è che siamo tanti, tantissimi. Scoprirò poi che siamo in 8000 ed io scompaio in mezzo a questa folla di scarpe di ogni colore. Io abituato alla solitudine del mattino presto, alle mie sole scarpe e alla vista del vuoto intorno, solo senza gli altri, solo il cemento che calpesto, la musica che mi fa compagnia nelle orecchie scandendo ogni passo.

Invece qui siamo tanti, dobbiamo esserlo, e ognuno ha un suo modo: chi nonostante il freddo vuole mostrare il tatuaggio che ha sulla spalla, chi ha il completo evidentemente nuovo e chi invece mostra la maglietta della gara del 2014, quasi con l’esigenza di dimostrare che è un corridore da prima degli altri. Io sto li, mi guardo senza guardarmi, prendo le misure con un nuovo me stesso, osservo quello che succede intorno battendo con il piede il ritmo di una delle numerose canzoni commerciali che fanno passare per le casse della gara per motivarti. Per ora siamo ammassati come mucche o maiali sulla via del macello, senza un ordine, come verso un sacrificio, ma tutti sorridenti per cui è evidente che non è un sacrificio ma una scelta di gioia e spontaneità. Noto i gruppi, gli amici, i conoscenti che accompagnano un signore di una certa età, che si sfila la giacca della tuta e sorride orgoglioso della sua capacità di essere ancora li in mezzo e pronto alla partenza.

Cerco di capire come funziona, ho trovato il mio posto (10km in circa 45/48”), ora so che sono nel posto giusto. E in quel momento qualcosa si muove, si parte, capisco che fra poco tocca ai miei piedi muoversi. Non mi sono riscaldato più di tanto, ho dalla mia la ginnastica del mattino, quello è il mio riscaldamento cui non rinuncio mai, il riscaldamento di corpo, dell’anima e della mente che mi accompagna da ormai 2 anni e più. Comunque si parte, e la maglietta leggera che mi faceva provare un po’ di freddo fino a quel momento in una Torino grigia e quasi piovosa ma accogliente diventa una protezione perfetta, non serve niente di più.

La partenza è il momento in cui capisco che è tutto vero, percepisco quanti siamo davvero e cerco di farmi spazio. Sento qualcuno che dice “io voglio vedere Torino, mica mi sono iscritto per gareggiare” e chi cerca il proprio respiro. Incrocio chi urla il nome di un amico che lo saluta dal lato della strada tenendo ben saldo in mano un ombrello pronto all’uso e indosso l’impermeabile primaverile apparentemente leggero. Altri cominciano a correre e visibilmente, come faccio io stesso, stanno facendo un check di ogni parte del corpo: come stanno le gambe? Che passo intraprendere? Quale, in mezzo a tutti questi passanti domenicali allenati, è il mio ritmo?

Io, dal canto mio, parto più veloce di quanto faccio di solito, ho appena fatto partire il mio cronometro sul telefono agganciato al braccio e non lo guarderò più. Cercherò di sentirlo per i parziali e il ritmo, ma non mi riesce neanche quello. Dunque parto veloce, più veloce del solito, principalmente perché voglio farmi spazio, non avere troppi gomiti e passi intorno, mi sento bene, in forma, il mio check ha dato risposte positive su ogni fronte, quindi non indugio. Quello che tengo sotto controllo è il respiro: ascolto per questo motivo anche quello degli altri, cerco di allinearmi quasi, mentre supero numerosi corridori e mi sento forte per questo, anche se c’è poco di cui gioire, troppo presto. Il respiro rimane costante, prende il ritmo della fatica iniziale, passio dallo stare fermo sui due piedi a metterli uno davanti all’altro con rapidità, spingendo sulla punta e atterrando sull’altro tallone, in una ripetizione che scandisce i metri uno dopo l’altro. Noto con soddisfazione che continuo a superare persone, mi viene in mente Murakami quando racconta della sua maratona ad Atene e della sensazione di superare altri concorrenti. Sorrido. Ecco, è in quel momento che sorrido pensando che sono dove vorrei, in un luogo e in una situazione in cui non sono stato mai prima, ad osservare come reagisco e cosa significa, ma fondamentalmente sto bene, ed è come se per un istante avessi tutto quello di cui ho bisogno. Sorrido e mentre lo faccio mi chiedo cosa penseranno quelli sul bordo della strada, i genitori con bambini piccoli, i turisti capitati per caso in mezzo a quella mandria di scarpe da ginnastica multicolore e in movimento, a formare isole pedonali improvvisate e indifese. Sorrido e guardo il mio sorriso, come la forma di più alta soddisfazione che posso provare nei confronti della prova che sto vivendo: ecco, credo che  il mio obiettivo sia, correndo o facendo qualsiasi altra cosa che richieda sforzo mentale o fisico, farlo sorridendo. Più avanti nella corsa noterò che il sorriso scompare, in altre parole non si nota più che un ghigno di sforzo tra le pieghe del mio viso, ma il sorriso è entrato dentro di me, e fino ad un certo punto, sostiene i miei passi.

Comunque attraversiamo il primo tratto di strada che riconosco, il parco dove sono già stato, piccoli flash di ricordi mi attraversano lo sguardo, che comunque mantengo dritto e attento ad evitare i binari scivolosi del tram per terra e i gomiti e le gambe in agguato dei 7999 che mi stanno intorno. Loro non si fermano di certo e io non posso distrarmi troppo. Rimango nel gruppo, felice di esserci, me ne sento parte, come se fossimo un unico grande team. Noto con piacere che il mio ritmo è un po’ più alto del solito, mi chiedo per quanto potrà durare, e mi dico anche che finché dura devo approfittarne, e continuo soprattutto a superare persone, notando con stupore a ammirazione i quattro o cinque individui che a loro volta superano me, con un ritmo che potrei associare solo a quello di una gazzella o di un canguro. I loro passi mi fanno rendere conto che loro stanno facendo un’altra cosa, non stanno correndo come me, e questo mi mette tranquillo. La folla si dirada finalmente un po’, finalmente possibile distinguere le persone, persino riconoscerle: rivedo quello che alla partenza mi era vicino, riconosco scarpe uguali alle mie, mi guardo intorno.

Mi supera una ragazza: è bella, per quello che posso vedere, ma soprattutto in forma, ha un bel passo, una chioma di capelli del colore di un tronco d’albero autunnale che rimbalza sulla schiena ad ogni passo, tenuto insieme da un elastico probabilmente semplice, rubato con innocenza dal bagno di un’amica cara alcuni giorni prima e identificato come porta fortuna per la gara. Mi supera ma senza darci troppa importanza, e io decido che il mio obiettivo è non perderla. Non ho altri parametri o modi per misurare la mia performance se non questo: trovare un riferimento umano che mi sembra vada ad un buon ritmo e lanciarmici dietro. Scelgo lei sicuramente perché è l’unica donna in mezzo a solo uomini che mi sembrano tutti uguali. Va avanti così per circa 3 chilometri, lei mi precede di alcuni metri e io le sto dietro. Nelle leggere salite la affianco, forse ho un po’ più di resistenza di lei in quella pendenza, ma appena tornati in pianura pago lo sforzo e perdo un po’ di ritmo. È incredibile come una leggera differenza di inclinazione del manto stradale possa cambiare lo sforzo dei muscoli delle mie cosce e il ritmo dei miei polmoni. Comunque la seguo, la affianco, sono soddisfatto di essere li costantemente quando improvvisamente scompare: non so come e non so quando, mi giro e non c’è più.

Che mi abbia seminato?

Che abbia lasciato la gara?

Io certamente non posso averla distanziata così tanto. Pensandoci adesso, credo che in realtà l’ho semplicemente persa di vista, perché sto pensando ad altro. Abbiamo superato la metà e penso che avrei voluto fare i 21Km. I 10km ormai li sento miei, li faccio con regolarità, difficilmente corro meno di quella distanza quando mi alleno, e allora avrei voluto misurarmi con qualcosa di più. Ma va bene lo stesso, mi dico, e tiro dritto. Ecco, li l’ho persa.

Comincio ad essere solo con il mio ritmo, non siamo più una folla, un gruppo guidato dal pacer mi supera (non riesco a leggere sul palloncino il tempo del pacer e non mi sforzo neppure di farlo) e io li guardo andare avanti non senza prima aver fatto un tentativo di stare loro dietro. È questo, mi pare, il momento in cui si distingue tra chi si allena per gareggiare e chi lo fa per pure divertimento o come un hobby. Si creano distintamente due gruppi: quelli che procedono allo stesso ritmo della partenza anzi un po’ di più e quelli, tra cui ci sono io, che entrano nella fase della resistenza al ritmo avviato, senza voler diminuire. Avvio una fase di analisi delle posture altrui: siamo pochi per cui è facile identificare ognuno e nell’osservarli guardo i loro passi, come poggiano e si consumano le suole delle scarpe, il ritmo dei passi e l’eleganza della loro corsa. Mi fa pensare all’armonia che cerco nel mio corpo e all’attenzione che voglio porre in ogni passo che faccio, uno dopo l’altro, un’avvicendamento di falcate che devono succedersi con eleganza, equilibrio. Mi concentro improvvisamente su di me, sul passo che voglio tenere fino alla fine (d’altronde siamo all’ottavo chilometro passato). Mi chiedo cosa ci voglia per vincere una gara del genere, mi chiedo perché sono li e perché corro quando corro, mi chiedo se andrò a correre di nuovo dopodomani e con quale motivazione. Mi piace mettere in dubbio ogni mia convinzione, compreso il motivo per cui sono li, oggi: e mi rispondo con il sorriso che aveva inaugurato la partenza.

Vado al mio ritmo, felice, soddisfatto, mettendo nell’ultimo chilometro uno sforzo in più e negli ultimi cento metri le ultime forze che ho, come se andassi verso una medaglia.

Passo sotto il traguardo, sono arrivato, anche se vorrei continuare.

Ma la missione è compiuta ed ora è tempo di riflettere.

Poche ore dopo davanti ad un gelato che assomiglia ad un premio incontriamo per caso un amico di Isaac, lui spiega come ha fatto con tutti perché siamo qui (“mio papà deve correre la maratona”) e la mamma del ragazzo mi si rivolge dicendo: “ah, allora lei è uno sportivo?”

Questo non lo so e davvero non posso affermarlo, ma mi sono divertito.